*Estate – Un sabato di sole, sabbia e sonno
– Per i suoi reumi, – aveva detto il dottore della Mutua, – quest’estate ci vogliono delle belle sabbiature –. E Marcovaldo un sabato pomeriggio esplorava le rive del fiume, cercando un posto di rena asciutta e soleggiata. Ma dove c’era rena, il fiume era tutto un gracchiare di catene arrugginite; draghe e gru erano al lavoro: macchine vecchie come dinosauri che scavavano dentro il fiume e rovesciavano enormi cucchiaiate di sabbia negli autocarri delle imprese edilizie fermi lì tra i salici. La fila dei secchi delle draghe salivano diritti e scendevano capovolti, e le gru sollevavano sul lungo collo un gozzo da pellicano stillante gocce della nera mota del fondo. Marcovaldo si chinava a tastare la sabbia, la schiacciava nella mano; era umida, una palta, una fanghiglia: anche là dove al sole si formava in superficie una crosta secca e friabile, un centimetro sotto era ancora bagnata.
I bambini di Marcovaldo, che il padre s’era portati dietro sperando di farli lavorare a ricoprirlo di sabbia, non stavano più nella pelle dalla voglia di fare il bagno. – Papa, papa, ci tuffiamo! Nuotiamo nel fiume!
– Siete matti? C’è il cartello «Pericolosissimo bagnarsi»! Si annega, si va a fondo come pietre! – E spiegava che, dove il fondo del fiume è scavato dalle draghe, restano degli imbuti vuoti che risucchiano la corrente in mulinelli o vortici. – Il mulinello, facci vedere il mulinello! – Per i bambini, la parola suonava allegra.
– Non si vede: ti prende per un piede, mentre nuoti, e ti trascina giù.
– E quello, perché non va giù? Cos’è, un pesce?
– No, è un gatto morto, – spiegava Marcovaldo. – Galleggia perché ha la pancia piena d’acqua.
– Il mulinello al gatto lo prende per la coda? – chiese Michelino.
Il pendio della riva erbosa, a un certo punto, s’allargava in uno spiazzo pianeggiante dov’era alzato un gran setaccio. Due renaioli stavano setacciando un mucchio di sabbia, a colpi di pala, e sempre a colpi di pala la caricavano su di un barcone nero e basso, una specie di chiatta, che galleggiava lì legata a un salice. I due uomini barbuti lavoravano sotto il solleone con indosso cappello e giacca, ma tutta roba stracciata e muffita, e pantaloni che finivano in brandelli, sul ginocchio, lasciando nudi gambe e piedi.
In quella rena rimasta ad asciugare giorni e giorni, fine, separata dalle scorie, chiara come sabbia marina Marcovaldo riconobbe quel che ci voleva per lui. Ma l’aveva scoperta troppo tardi: già la stavano ammucchiando su quel barcone per portarla via… No, non ancora: i renaioli, sistemato il carico, diedero mano a un fiasco di vino, e dopo esserselo passato un paio di volte e aver bevuto a garganella, si sdraiarono all’ombra dei pioppi per lasciar passare l’ora più calda.
«Finché loro se ne stanno lì a dormire, io potrò coricarmi nella loro rena e far le sabbiature!» pensò Marcovaldo, e ai bambini, sottovoce, ordinò:
– Presto, aiutatemi! Saltò sul barcone, si tolse camicia pantaloni e scarpe, e si cacciò sotto la sabbia. – Copritemi! con la pala! – disse ai figli. – No, la testa no; quella mi serve per respirare e deve restar fuori! Tutto il resto! Per i bambini era come quando si fanno le costruzioni di sabbia. – Ci giochiamo con le formine? No, un castello con i merli! Macché: ci vien bene un circuito per le biglie! – Adesso andate via! – sbuffò Marcovaldo, da sotto il suo sarcofago d’arena. – Cioè: prima mettetemi un cappello di carta sulla fronte e sugli occhi. E poi saltate a riva e andate a giocare più lontano, se no i renaioli si svegliano e mi cacciano! – Possiamo farti navigare per il fiume tirando il barcone da riva con la fune, – propose
Filippetto, e già aveva mezzo slegato l’ormeggio.
Marcovaldo, immobilizzato, torceva bocca e occhi per sgridarli. – Se non ve ne andate subito e mi obbligate a uscire di qui sotto, vi bastono con la pala! – i ragazzi scapparono.
Il sole dardeggiava, la sabbia bruciava, e Marcovaldo grondando sudore sotto il cappelluccio di carta provava, nella sofferenza di star lì immobile a cuocere, il senso di soddisfazione che danno le cure faticose o le medicine sgradevoli, quando si pensa: più è cattiva più è segno che fa bene.
S’addormentò, cullato dalla corrente leggera che un po’ tendeva, un po’ rilassava l’ormeggio. Tendi e rilassa, il nodo, che prima Filippetto aveva già mezzo slegato, si sciolse del tutto. E la chiatta carica di sabbia scese libera per il fiume.
Era l’ora più calda del pomeriggio; tutto dormiva: l’uomo sepolto nella sabbia, le pergole degli imbarcaderi, i ponti deserti, le case che spuntavano a persiane chiuse oltre le murate. Il fiume era in magra, ma il barcone, spinto dalla corrente, evitava le secche di fanghiglia che affioravano ogni tanto, o bastava una scossa leggera sul fondo a rimetterlo nel filo dell’acqua più profonda.
A una di queste scosse, Marcovaldo aperse gli occhi. Vide il ciclo carico di sole, dove passavano le nuvole basse dell’estate. «Come corrono, – pensò delle nuvole. – E dire che non c’è un filo di vento! » Poi vide dei fili elettrici: anche quelli correvano come le nuvole. Girò di lato lo sguardo quel tanto che glielo permetteva il quintale di sabbia che aveva addosso.
La riva destra era lontana, verde, e correva; la sinistra era grigia, lontana, e in fuga anch’essa. Capì d’essere in mezzo al fiume, in viaggio; nessuno rispondeva: era solo, sepolto in un barcone di sabbia alla deriva senza remi né timone. Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi, cercare di approdare, chiamare aiuto; ma nello stesso tempo il pensiero che le sabbiature richiedevano una completa immobilità aveva il sopravvento, lo
faceva sentire impegnato a star lì fermo più che poteva, per non perdere attimi preziosi
alla sua cura.
In quel momento vide il ponte; e dalle statue e lampioni che adornavano le balaustre, dall’ampiezza delle arcate che invadevano il cielo, lo riconobbe: non pensava d’esser arrivato tanto avanti. E mentre entrava nell’opaca regione d’ombra che le volte proiettavano sotto di sé, si ricordò della rapida. Un centinaio di metri dopo il ponte, il letto del fiume aveva un salto; il barcone sarebbe precipitato giù per la cascata ribaltandosi, e lui sarebbe stato sommerso dalla sabbia, dall’acqua, dal barcone, senza alcuna speranza d’uscir vivo. Ma ancora, in quel momento, il suo cruccio maggiore era ai benefici effetti della sabbiatura che si sarebbero persi all’istante.
Attese il crollo. E avvenne: ma fu un tonfo da sotto in su. Sull’orlo della rapida, in quella stagione di magra, c’erano ammucchiati banchi di fanghiglia, qualcuno inverdito da esili cespi di canne e giunchi. Il barcone ci s’incagliò con tutta la sua piatta carena, facendo sobbalzare l’intero carico di sabbia e l’uomo sepolto dentro. Marcovaldo si trovò proiettato in aria come da una catapulta, e in quel momento vide il fiume sotto di lui. Ossia: non lo vide affatto, vide solo il brulichio di gente di cui il fiume era pieno.
Di sabato pomeriggio, una gran massa di bagnanti affollava quel tratto di fiume, dove l’acqua bassa arrivava solo fino all’ombelico, e i bambini vi sguazzavano a scolaresche intere, e donne grasse, e signori che facevano il morto, e ragazze in «bikini», e bulli che facevano la lotta, e materassini, palloni, salvagente, pneumatici di auto, barche a remi, barche a pagaia, barche a palo, canotti di gomma, canotti a motore, canotti del servizio
salvataggi, jole delle società di canottieri, pescatori col tremaglio, pescatori con la lenza, vecchie con l’ombrello, signorine col cappello di paglia, e cani, cani, cani, dai barboncini ai sambernardo, così che non si vedeva neanche un centimetro d’acqua in tutto il fiume. E Marcovaldo, volando, era incerto se sarebbe caduto su un materassino di gomma o tra le braccia d’una giunonica matrona, ma d’una cosa era certo: che neppure una goccia d’acqua l’avrebbe sfiorato.
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