C’è che d’estate
mi spalanco,
come finestra sottovento,
a correnti di dolori.
C’è che sempre rincorro le stagioni;
germoglio di pane, ora grano incolto.
C’è che sono miope,
un po’ non ci vedo,
ma col suo rumore la città
mi soffia sguardi sulla pelle.
C’è che m’impregno
e come spugna riposo
sul fondale salmastro del sole.
C’è che l’ombra s’asciuga in fretta,
come un cincìn di voci versate
sulla notte a sorseggiarsi la luna.
C’è che coi libri scaccio
le zanzare e quelle mie paure.
C’è che una lontananza
quasi mi fa soffrire
come solo ciò che non esiste può
C’è che poi dell’afa,
proprio, chissenefrega,
ché c’è del gelato ancora,
diciotto giorni contati sulle dita
e mezzo sogno in frigo.
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